Intervista a cura di Laura Cianfarani per Il MURO MAG
Nella mostra “Babylon City” vediamo paesaggi urbani, stazioni ferroviarie, edifici metropolitani, tutti ambienti abitati da personaggi sospesi nell’attesa o animati da un movimento quasi frenetico. Come nasce e come si sviluppa l’idea di realizzare una serie di opere sul tema metropolitano?
Nasce da una stazione….la stazione Termini di Roma. Nasce dal suo rumore, dal suo fastidioso odore pungente e dai suoi straordinari squarci di cielo tagliati dai gabbiani. Nasce dalle sue anime perse in corsa o da quelle sospese, ferme a naso in su a guardare l’orario di un treno, un binario, un numero che varia tutte le volte. È lì che seduta ad aspettare il mio treno ho cominciato a disegnare quello che avevo intorno e lì sono ancora persa ad aspettare il mio treno o forse l’ho preso e sono già da un’altra parte…chissà.
Alcune città da te raffigurate, pur nell’atmosfera visionaria e onirica, sono realmente esistenti (come Roma, Venezia, Berlino). Cosa ti ha spinto a metterle in relazione con gli aspetti mitici di Babilonia?
Il mito di Babilonia ci sussurra, con le sue molte lingue, un racconto di desiderio, di orgoglioso coraggio e di bramosia verso l’ignoto al fine di superare il limite del possibile o meglio del consentito all’uomo. In “Babylon City” tra le tracce di grafite e di pigmenti su muri disegnati, in prospettive instabili di città reali ed irreali, sul confine tra ciò che è possibile e ciò che non lo è, danzano le mie figure-ombra dalle molte lingue o nessuna, presenti ed assenti a se stesse.
Il percorso espositivo si articola in due sezioni: una ambientata in stazioni ferroviarie, l’altra addentrata nelle mura urbane. In entrambe le figure sono indefinite, non hanno lineamenti, ma nella prima sezione non proiettano le loro ombre. Cosa ti ha portato a questa scelta?
I lineamenti distinguono una figura, le danno corpo, carattere, forma. Le mie figure fanno parte dell’atmosfera, sono destinate ad essere vestite di vita propria da parte di chi le guarda ed a volte il tutto è amplificato da un riflesso sull’asfalto, riflesso liquido che proietta la figura su di un’altra dimensione. Grazie all’indefinizione delle figure, ognuno può decidere chi sia il personaggio-ombra che attraversa la strada, si muove in una stanza o cammina in un relitto industriale, la sua storia sarà sempre diversa in relazione agli occhi che né seguono i passi.
C’è qualche episodio della tua vita particolarmente legato alle stazioni ferroviarie?
Una volta in una stazione sono stata colpita da una coppia che si abbracciava teneramente, mi sono immaginata la loro storia ed ho fantasticato sul loro amore perfetto, incondizionato, invidiabile. Poi i due si sono salutati ed appena lui è andato via lei ha cominciato a piangere ed ha chiamato con il cellulare un’amica. Parlava in maniera così concitata che non si poteva non sentirla, in breve i due si erano lasciati e quello era il loro ultimo abbraccio. Sono rimasta molto colpita perché quello che credevo fosse reale era stato completamente travisato, tutto si era costruito solo nella mia mente e lì rimaneva perfetto, immutabile. Questo episodio mi ha in qualche modo indicato una direzione, ho cominciato a non descrivere troppe cose nelle mie opere, a lasciare indefiniti i contorni ed a sfumare sempre di più gli elementi strutturali. Vorrei che guardare un mio quadro potesse essere come aprire la pagina di un libro a caso; non si può sapere quello che è successo prima né quello che potrà succedere dopo… è solo un momento, un’istante bloccato di un tempo infinito dove in effetti tutto può succedere.
In questo periodo sei presente a Roma anche con un’altra mostra: “Seguendo il coniglio bianco”. Il riferimento è al personaggio di Carroll, ma qui Alice è una giovane donna che si muove tra paesaggi underground e luoghi naturali, ora a piedi nudi, ora con i tacchi alti. C’è in qualche modo un’allusione alla ricerca della propria identità femminile?
Sicuramente c’è un riferimento all’identità di questa Alice non più bambina ma diventata adulta alla ricerca di risposte in un mondo difficile da codificare. Alice è il nostro desiderio di seguire un “coniglio bianco” ed ognuno di noi ha un suo “coniglio bianco”, un suo desiderio che insegue e di cui a volte ha paura perché è “buia e profonda la tana del bianconiglio”. Viene da chiedersi: una volta raggiunto il nostro coniglio bianco saremo in grado di fare i conti con lui?
Possiamo dire che, in entrambe le mostre, ci troviamo di fronte a una sorta di viaggio e che, in ambedue, la meta sia sconosciuta. Cos’è che differenzia i percorsi?
“Babylon City” è il viaggio come percorso che ci mette in relazione con l’esterno, è il nostro modo di costruire la realtà che ci circonda e dalla stessa venire emozionati in maniera sempre diversa; “Seguendo il coniglio bianco” è il viaggio dentro di noi, il percorso ad ostacoli con i nostri pensieri, con il nostro continuo divenire; sono i due percorsi obbligati, il bianco ed il nero della scacchiera in cui giochiamo la nostra partita ed in cui dobbiamo scegliere di volta in volta la nostra mossa.
Il Muro MAG